Che ogni regione abbia il proprio turismo sanitario?
Già, perché sempre più spesso si parla di turismo sanitario, ma si tratta di una definizione sbagliata. Il turismo sanitario interno altro non è che una persona, e in alcuni casi un genitore, che di fronte ad un problema di salute, decide di farsi seguire e curare da una struttura sanitaria posta lontana da casa. Se lo chiamiamo “turismo sanitario” diamo a questo fenomeno una parvenza di valore aggiunto. Si tratta invece di un disvalore, perché, nei fatti, non apporta al sistema paese particolari vantaggi aggregati, soprattutto se si tiene conto che il turismo sanitario riguarda anche (se non prevalentemente) strutture sanitarie finanziate dal settore pubblico.
In altri termini: se si scompone il supposto valore aggiunto del comparto, si ottengono da un lato una spesa sanitaria, e dall’altro una spesa per trasporti, ristorazione, pernottamento e affini.
Sulla spesa pubblica, a livello nazionale, la variazione di regione non genera, al netto di impatti indiretti, una variazione monetaria.
Sotto il profilo privato, tali spese sono da considerare, a seconda delle disponibilità di reddito delle persone coinvolte, o una riduzione del risparmio, o una sostituzione di consumo.
Facendo un esempio concreto: ipotizzando che una famiglia debba sostenere una spesa di € 3.000 per motivi sanitari, allora è facile comprendere che se la famiglia presenta un reddito medio allora tenderà a ridurre i propri consumi per un pari valore nel corso dell’anno (rinunciando alle vacanze o ad altri consumi previsti). Se invece la famiglia ha un reddito superiore alla media, è molto probabile che la propria disponibilità liquida sia tendenzialmente limitata, in quanto la maggior parte della quota di reddito “eccedente” le esigenze di vita sia allocata in prodotti di investimento. Di conseguenza, l’effetto di questa spesa non andrà sui consumi ma andrà sugli investimenti e sul reddito, con potenziali perdite di interessi positivi nel caso di investimenti vincolati.
Quando dunque si legge che c’è un esodo di persone che dalle regioni del sud si trasferiscono al nord per poter essere assistiti e curati da strutture ospedaliere e in ogni caso sanitarie, non stiamo parlando di un effetto turistico, ma di una inefficienza di sistema che genera ben pochi vantaggi per l’intera collettività.
Diverso, invece, sarebbe il caso di politiche che, creando dei poli di eccellenza in ciascuna delle regioni d’Italia, incentivasse la permanenza anche al di fuori del periodo di cura, mediante incentivi fiscali, o mediante vere e proprie convenzioni in grado di sviluppare un’economia integrativa di tali spese percepite troppo spesso come “necessarie”.
Un esempio può aiutare anche in questo caso: supponiamo che la famiglia precedente abbia speso € 3.000 in strutture ricettive della Lombardia, che secondo quanto indicato da QuiFinanza citando il Referto al Parlamento sulla gestione finanziaria dei servizi sanitari regionali, in 10 anni ha incassato 6,176 miliardi di euro con questa peculiare tipologia di turismo. Immaginiamo che, sempre sperando che questo trasferimento abbia portato alla soluzione del problema di salute, questa famiglia, dopo aver sostenuto tali spese, non abbia denaro sufficiente per poter organizzare le proprie vacanze. A questo punto, però, ipotizzando una convenzione con il sistema ricettivo, immaginiamo che a fronte di tale cifra, venga riconosciuta alla famiglia un voucher, di pari valore, da
spendere presso le strutture ricettive lombarde posizionate in aree che la regione vuole potenziare come potenziali mete turistiche alternative.
In questo caso, a fronte della spesa imprevista, la famiglia potrà in ogni caso avere l’opportunità di “fare le vacanze”, facendo in modo che la famiglia possa realmente incrementare le spese per turismo aggregato, favorendo l’affermazione di destinazioni meno note, e contribuendo a fornire ai cittadini un diritto che altrimenti è semplicemente un diritto negato.
Questo tipo di organizzazione porterebbe immediatamente ad un progressivo adeguamento dell’offerta di “alloggio” in caso di turismo sanitario, ma anche ad un progressivo adeguamento da parte delle organizzazioni sanitarie, incentivate in questo senso da un diretto interesse regionale, sospinto a propria volta dall’interesse di interlocutori economici interessati a sviluppare politiche di investimento sul “turismo sanitario di ritorno”, che, ripetiamolo, sarebbe l’unico valore aggiunto netto per la nostra economia.
Se siamo proprio costretti a trasformare qualsiasi spostamento in turismo, allora cerchiamo almeno di capire quando uno spostamento ha un valore aggiunto o quando invece è un costo secco per la nostra collettività.
Non sapendo più distinguere tra turismo che premia e turismo che nuoce, forse questo potrebbe essere un primo passo per iniziare a delineare con precisione ciò che dovremmo considerare auspicabile per il nostro Paese.