Ecco perché è sbagliato sperare che il turismo valga sempre di più.
Il turismo, da sempre, rappresenta uno dei settori più interessanti per il nostro Paese: la presenza di stranieri sul nostro territorio aiuta notevolmente molteplici tipologie di mercati, a partire dal Patrimonio Culturale fino ad arrivare all’industria del lusso.
Per queste ragioni, malgrado si sollevino a più voci tentativi di calmierare l’afflusso turistico trovano poi di fatto soltanto raramente una concreta applicazione. Ridurre il numero di turisti significa infatti ridurre in modo significativo i consumi in struttura ricettive (alberghiere o extra-alberghiere), i trasporti, le attività di ristorazione, il commercio, il numero di visitatori dei musei e la spesa media presso bookshop e caffetterie di istituti culturali.
Basti pensare al fatto che, secondo l’ENIT, come riportato dai media, nel 2024 il contributo del turismo è stato pari a circa il 10,4% del PIL.
Una cifra considerevole, ma che contiene anche una minaccia al sistema economico nazionale, rappresentando un affare di breve termine che raccoglie capitali che invece potrebbero essere destinati ad operazioni più strutturate.
Si prenda il caso dei famosi B&B: in quasi tutte le più grandi città turistiche italiane, i flussi turistici hanno creato un incremento delle soluzioni ricettive, che talvolta hanno tuttavia condotto ad una riduzione degli spazi di vita (case in affitto di lungo periodo). Da un lato questo spostamento dell’offerta immobiliare ha sicuramente degli impatti diretti sulla vita delle persone che vivono e lavorano in città. Dall’altro, tuttavia, smista capitali e investimenti su un’industria che, tuttavia, presenta notevoli debolezze strutturali, prime tra tutti l’aleatorietà derivante dalle decisioni turistiche internazionali.
Sotto il profilo sistemico, infatti, la sempre crescente rilevanza del settore turistico rende sicuramente più appetibile l’avvio di nuove attività legate al campo della ricettività, della ristorazione e dei servizi aggiuntivi del turismo. Il vantaggio è che tali azioni trattengono parte della ricchezza estera nella nostra economia reale, con vantaggio per numerose categorie professionali.
Pur se redditizie, tuttavia, queste attività non implicano il consolidamento della nostra economia. L’attuale offerta ricettiva, infatti, risponde prevalentemente a una domanda internazionale: pensando anche alla sola componente numerica, è evidente che le attività ricettive, e in particolar modo le attività ricettive extra-alberghiere, assorbono la domanda di viaggi in incoming nel nostro Paese espressa dai consumatori di tutto il mondo. È però vero che, al tempo stesso, essa presenta un esubero rispetto alla domanda interna, che sempre secondo i dati ENIT, ha registrato una flessione nel 2024. Insomma, abbiamo tante attività che si rivolgono soprattutto ad una clientela internazionale, e che tuttavia per numero, risultano senza dubbio in eccesso rispetto ad una domanda interna meno espansiva.
Questo genera una serie di flussi economici “periodici”, alternando ai momenti di alta stagione, mesi e mesi di basso riempimento, creando quindi le condizioni per la formazione di lavoratori stagionali e precari.
Il segmento turistico, tuttavia, per essere realmente “utile” allo sviluppo del nostro Paese, dovrebbe assolvere a funzioni di natura strumentale. Non soltanto sotto il profilo economico, ma anche culturale.
Si tratta di una considerazione sostanzialmente frugale: un turista straniero si reca, in nome del turismo slow, del turismo delle origini, o di qualsiasi altra forma “sostenibile” che si sta cercando di promuovere negli ultimi anni, all’interno di un piccolo borgo di circa 1.000 abitanti.
Arriva in Italia comprando biglietto low-cost (e quindi non attraverso un vettore nazionale – ma questa è colpa nostra), affitta una macchina attraverso un altro vettore internazionale (ma qui l’effetto è neutro, perché da un lato erode parte degli introiti, dall’altro, praticando prezzi più competitivi, consente di estendere la platea di potenziali clienti), e si reca, per 3 giorni, in questo piccolo borgo. Durante questi tre giorni il turista avrà modo di conoscere il signor Piero, la signora Maria, andare a cenare tutte le sere al ristorante, andare a fare colazione nei bar, respirare l’aria autentica del nostro Paese e comprare qualche piccolo oggetto da riportare con sé al rientro a casa. Avrà modo di partecipare a qualche escursione organizzata, visitare il museo di storia contadina, assaggiare qualche prodotto locale.
Saranno tutti elementi importantissimi per il borgo, che tuttavia, al termine della presenza turistica, tornerà prevalentemente alla propria ricchezza ante-visita, al netto degli effetti di maggior consumo derivanti da un maggiore reddito da parte di quelle organizzazioni presso le quali il visitatore ha pernottato o ha cenato.
Al proprio ritorno a casa, il turista continuerà a tessere le lodi del nostro Paese: l’aria, il paesaggio, la cultura, la storia, il cibo, la moda, ecc.
Dirà agli amici di aver comprato un prosciutto buonissimo, o una pasta fatta in casa indimenticabile, ma tutto ciò non comporterà un incremento concreto della produzione e della vendita internazionale di prodotti locali.
Qualche entusiasta riuscirà a farsi trasportare dall’Italia quel tal vino o quella tisana, ma sarà difficile che, solo per questo, si possano incrementare i flussi commerciali in altri settori, soprattutto sotto il profilo dei servizi.
Quindi, per un po’ di tempo i produttori del piccolo borgo avranno guadagnato di più, e sulla base di tale guadagno avranno incrementato i propri consumi (se fiduciosi) o i propri risparmi (se più prudenti).
Immaginiamo che il visitatore, spargendo la voce, riesca a generare un piccolo flusso turistico per quel borgo: i visitatori crescono da 1 a 20, poi a 30, poi a 40, e infine a 50. I proprietari di casa, che nel frattempo hanno abbandonato il borgo per trasferirsi in città, sviluppano un’offerta di b&b e aprono una caffetteria e un ristorante e un locale dedicato alla “vita notturna”.
Questi 50 visitatori arrivano, spendono i loro soldi durante la stagione estiva, e poi vanno via. In questo modo, introducono nuove risorse all’interno dell’economia del paesino, ma sono risorse intermittenti: al termine della stagione estiva, il bar e i ristoranti chiudono, e gli esercizi commerciali del borgo ritornano a contare esclusivamente su quella forma di economia territoriale ante-turistica. Il bar sport (l’unico esistente prima dell’avvento del turismo, e l’unico che resta aperta tutto l’anno), avrà visto incrementare solo in quota parte i propri introiti, mentre parti di essi sono invece stati assorbiti dai proprietari “stranieri”. Il ristorante “la pergola” avrà dovuto, durante la stagione estiva, subire una flessione dei consumi, in parte erosi dal più nuovo e contemporaneo ristorante. I proprietari degli immobili residenziali saranno più alti perché ai proprietari (che non vivono più lì), non converrà più affittare sotto una certa soglia, tenendo conto del fenomeno turistico in crescita.
Il piccolo borgo, in altri termini, dopo una breve espansione economica, sarà ridotto a mero territorio di intermediazione tra i flussi turistici, e i consumi degli stessi, gran parte dei quali saranno tuttavia raccolti da soggetti e organizzazioni “aliene”, e vale a dire di proprietari non autoctoni.
Se pensiamo al nostro Paese come al piccolo borgo, è facile fare un parallelismo: i nostri più grandi brand hanno ormai proprietà internazionali; gli investitori in Italia che hanno possedimenti immobiliari e li destinano a strutture ricettive sono altrettanto numerosi. Restano dunque le dimensioni “di intermediazione” e di “assistenza alla visita”: ci sarà un ragazzo che lavora tre mesi all’anno presso il bar; una serie di cuochi e camerieri per il ristorante; ci sarà un incremento delle vendite della bottega locale.
Non ci saranno tuttavia effetti sistemici importanti: la maggior parte dei flussi non sarà distribuita territorialmente andando invece a sostenere economicamente azioni imprenditoriali non attente allo sviluppo “armonioso” del territorio.
Nel frattempo, l’aumento dei costi avrà dissuaso altre persone a venire a vivere nel paesino, e avrà nel frattempo anche corroso il potere d’acquisto degli stessi abitanti.
Ovvio, il turismo genera effetti positivi importanti, e di certo lo scopo di questa riflessione non è quello di sostenere politiche che riducano gli arrivi e le spese. Anzi.
Questa narrazione è però importante per capire cosa si cela dietro ai grandi numeri che ogni anno vengono proclamati da tutti, salvo evitare qualsiasi approfondimento che permetta di dare al dato netto (+5, +10, +15, +1000%) una propria tridimensionalità.
Per essere davvero efficace, il turismo dovrebbe crescere in misura nominale, ma ridursi in termini percentuali. Sperare in un impatto crescente, soprattutto in un momento in cui alla guida degli USA c’è una politica che mira a creare un maggiore “equilibrio” tra le bilance commerciali, significa sperare che ci sia una spesa turistica generale più alta, a parità dell’intero comparto economico. Condizione che potrebbe essere anche valida nel caso in cui l’intero flusso di ricavi turistici resti nell’economia reale del nostro Paese. Ma sappiamo tutti che non è così. E il richiamo all’equilibrio della bilancia commerciale potrebbe dunque portare l’amministrazione USA ad avviare una trattativa per aumentare gli acquisti dagli USA.
In pratica, se non ben “compresi”, gli effetti positivi di un incremento turistico potrebbero rivelarsi inferiori degli effetti negativi.
Non sempre è facile comprendere le connessioni tra i vari settori. Ma il fatto che sia “difficile” non dovrebbe impedire una riflessione strutturata e non ideologica su cosa convenga di più al nostro Paese. Comprendere, e anche accettare, che l’incremento del turismo potrebbe rappresentare un “costo a medio termine”, ma preferire ugualmente un ricavo nel breve.
E invece, come tantissimi altri temi che riguardano l’economia e lo sviluppo del territorio, conta “il +”, il “record”, l’importanza del settore per l’intera economia, per l’intera occupazione.
Forse, però, si tratta di una riflessione che non basta più, o nella quale, in ogni caso, il segno più non basta.